domenica 28 novembre 2004

la Festa della Toscana

ADNKRONOS
MUSICA: FIRENZE, CONCERTO PER "LA FESTA DELLA TOSCANA"*

Firenze, 26 nov. (Adnkronos Cultura) - L'austera e maestosa grandezza della Basilica di Santa Maria Novella, edificio simbolo del capoluogo toscano, ospiterà, martedì 30 novembre alle 21.00, il tradizionale concerto per "La Festa della Toscana". In un'eccezionale cornice di arte, storia, cultura, umanità, l'Orchestra da Camera Fiorentina, un organico di ventuno musicisti, tra violini, viole, clavicembali e solisti diretti dal Maestro Giuseppe Lanzetta, si esibirà sulle note delle partiture musicali di A. Marcello e J. S. Bach

*La Regione Toscana ha istituito la Festa della Toscana con la legge regionale 21 giugno 2001, n. 26: la celebrazione si tiene il 30 novembre di ogni anno per ricordare la ricorrenza dell'abolizione della pena di morte avvenuta il 30 novembre del 1786 - per la prima volta al mondo - ad opera del Granduca di Toscana, per affermare l'impegno per la promozione dei diritti umani, della pace e della giustizia, come elemento costitutivo dell'identità della Toscana. La Festa viene celebrata con iniziative e manifestazioni che coinvolgono contemporaneamente ogni località della regione.

La Festa della Toscana 2004 è dedicata alla pace e alla guerra vista con gli occhi dei bambini

dieci secoli di medioevo

La Stampa 28 Novembre 2004
Sesso, bugie e MEDIOEVO
di Renato Rizzo

TORINO. LO «jus primae noctis» su cui si sono costruite pruriginose commedie e tragedie di gotica atmosfera? Mai esistito: solo un esempio di quell’irregolarità del pittoresco che coinvolge e affascina chi cerca nel Medioevo vacue Beautiful da secoli bui. I templari? Sotto l’armatura, quasi niente: il mito che ha ammantato questi cavalieri dalla gloriosa figura è poco più d’una allegoria del vuoto. Non stavano a guardia del Tempio, avevano poco a che spartire con l’epica e con l’etica della ricerca del Graal: usando una certa forzatura prosaica li si potrebbe definire un gruppo di volontari pronti ad assistere i pellegrini lungo le strade che conducevano in Terra Santa. I grandi monasteri? Più ancora che silenti luoghi del sacro, eccoli proporsi - grazie alla loro sterminata produzione d’immagini destinate all’indottrinamento di fedeli in gran parte analfabeti - come pervasivi detentori d’una sorta di «monopolio televisivo» con annesso e immancabile conflitto d’interessi: al punto da spingere l’imperatore bizantino a una smania iconoclasta politicamente calcolata. Tre esempi di Medioevo come mondo nebbioso e fluttuante sull’orizzonte del nostro sapere: spesso riplasmato in modo contraddittorio dal tempo che trasforma la storia in radice di favola.
Sono tanti e labirintici i Medioevi che coesistono nei 10 secoli dell’Età del Mezzo: c’è quello dei mercanti e quello degli artisti, quello della Chiesa e quello dei prìncipi, quello delle invenzioni e quello delle rivisitazioni più o meno apocrife. Oggi, a collezionare e a raccontare questi panorami diversi, quattro volumi della collana Grandi Opere dell’Einaudi, nati da un progetto dello storico dell’Arte Enrico Castelnuovo e del medievista Giuseppe Sergi: s’intitolano Arti e Storia nel Medioevo e si propongono «di mettere in scena un dialogo tra storici dell’arte, attenti alla portata culturale dei documenti figurativi, e storici delle realtà sociali e politiche medievali, che sanno cogliere i molteplici punti di contatto con la nascita e lo sviluppo delle civiltà artistiche».
Un coro di cento specialisti tra i più prestigiosi d’Europa per raccontare insieme un viaggio tra arte e storia durato mille anni: era mai accaduto?
Sergi: «Credo proprio di no. Sino a ora non esisteva un’opera nella quale gli storici fossero riusciti a mettere da parte i loro due principali vizi: superare la tradizione secolare che, a ragione, li presenta come i più presuntuosi tra gli scienziati sociali e che, di conseguenza, li consegna al secondo vizio: ignorare l’importanza della storia dell’Arte».
Castelnuovo: «In questo lavoro non c’è né contrapposizione né egemonia tra le due discipline: il rapporto è visto e vissuto nella sua complessità».
Vediamoli, allora questi «Medioevi» che riaffiorano scorrendo i vari volumi: via via si dipana il racconto dei «tempi», degli «spazi» e delle «istituzioni» con i «paesaggi scritti» e quelli «rappresentati», i «luoghi del potere», i modelli. Quindi si descrivono i protagonisti: gli artisti, gli artigiani, i committenti e i nessi tra immagini, letteratura e predicazione. Per approdare a «ciò che resta dell’età di mezzo» nei secoli successivi, agli usi politici che se ne sono fatti, ai revival, alle reinvenzioni.
C.: «Il primo sforzo è stato quello d’entrare nel vivo della produzione artistica con i problemi e le meraviglie delle singole tecniche prendendo in esame, soprattutto, la “ricezione” dei contemporanei che, sovente, stravolge la gerarchia delle arti alla quale siamo abituati: stoffe, decorazione di vetri, oreficeria, illustrazione di codici erano considerati, spesso, più importanti degli affreschi e dei quadri».
S.: «Prendiamo il caso di pitture murali con o senza iscrizioni di precetti: erano vere opere d’arte funzionali, a volte promemoria per chi non sapeva leggere. Quasi nobilissimi riquadri di cantastorie. Il problema è che noi, oggi, osserviamo il Medioevo in base a quella deformazione prospettica che vizia sempre ogni rapporto con il passato. Così d’un periodo storico durato ben 10 secoli ci resta impressa soprattutto l’immagine dei suoi ultimi duecento anni. Un altro esempio? Il castello. Siamo abituati ad immaginare come prototipo quello residenziale - le costruzioni che vediamo in Val d’Aosta, per intenderci - ignorando che nei secoli centrali era totalmente diverso».
Medioevo è spesso sinonimo di cattedrali: le chiese che Goethe definiva «opere di architetti che hanno fatto salire le montagne sino al cielo».
C.: «Questo argomento ci induce a gettare uno sguardo di più ampio respiro su ciò che di quell’Età rimane nei periodi storici successivi. Se parliamo d’arte in senso stretto vediamo che il Medioevo offre una “lettura a partire dai vuoti”: da quell’1% di opere sopravvissute alle varie campagne iconoclaste. Ma l’arte ci guida a considerare anche gli usi politici di quel passato, i molti revival gotici e neogotici. Ho scritto che se un fantasma ha percorso l’Europa nel XIX secolo non fu solo quello del comunismo, ma anche quello della cattedrale. Distrutta, abbandonata, pianta, restaurata, esaltata, essa rappresentò il sogno di un’opera d’arte totale in cui, di volta in volta, s’incarnava lo spirito d’uno Stato, l’anima e la dottrina del cristianesimo, la rinascita delle città».
Simbolismi, interpretazioni che s’addentrano nelle ideologie. Victor Hugo vede Notre Dame come «l’opera colossale d’un uomo e d’un popolo, di operai disciplinati dal genio dell’artista», Chateaubriand paragona la cattedrale a una delle foreste in cui il genere umano ha ricavato il suo primo tempio, la Germania del 1800 la riconosce come simbolo della nazione tedesca. Ma consentite la provocazione: il Medioevo è di destra, di centro o di sinistra?
S.: «Per capire bisogna prendere le mosse dai pregiudizi negativi dell’Illuminismo che ha valutato quest’Età come quella del disordine, della decadenza, della superstizione. Poi si arriva ai pregiudizi positivi del Romanticismo che l’ha interpretata come infanzia delle nazioni, con radici identitarie non più soffocate dall’impero romano. Su quest’onda approdiamo al Novecento. Già nell’Italia fascista, che pure guardava ai miti dell’antica Roma, s’affaccia un Medioevo di destra: è nostalgia d’una società intrisa di religiosità, con una forte organizzazione gerarchica, di valori della forza militare e dell’obbedienza considerati come caratteristiche della nobiltà».
Nella «battaglia» delle ideologie avanzano, però, anche letture d’altro segno.
S.: «Certo: di centro e di sinistra. A ispirarle ci sono i principi di solidarietà che, secondo un’immagine edulcorata, muovono le comunità rurali, ma anche i feudatari visti come grandi possessori terrieri con poteri di vita e di morte sui contadini, i roghi delle streghe, l’inquisizione, le chiese e i palazzi edificati sul sudore e sul sangue dei poveri. E, poi, il capitalismo, giudicato positivamente da Adam Smith e negativamente da Karl Marx, aveva bisogno per contrasto di un “prima” che fosse autoritario, chiuso, statico».
Sulle tracce di questi mille anni non si sono messi solo gli storici sociali e dell’arte: c’è stata e c’è una moda sguinzagliata alle calcagna d’un Medioevo riprodotto. Nel vostro lavoro si discute di quest’epoca lontana, spesso «ambiguamente verosimile», immaginata attraverso nuove arti: le illustrazioni, il fumetto. E soprattutto il cinema in un fiorire di «Gothic revival» con opere mediocri, ma anche con quelle intellettualmente impegnate di Bergman, Buñuel, Pasolini.
C.: «Ci sono casi in cui l’Età di Mezzo diventa spazio privilegiato per raccogliere miti e favole e, sovente, si fonda su un repertorio cristallizzato che sfrutta e rievoca stereotipi nati, magari, da leggende. Pensiamo, ad esempio, a quella del Santo Graal, di cui ciclicamente compaiono “rivelazioni” e rivisitazioni: risale all’Ottocento».
S.: «E i Templari? Oggi i siti Internet che trattano questi argomenti sono, con ogni probabilità, tra i più frequentati. Eppure tutto ciò di cui si parla e si discute altro non è che storia mal digerita da sedicenti intellettuali in cerca di legittimazione».

Emanuele Severino
l'Essere e il Divenire

Il Sole 24 ore DOMENICA 28.11.04
VESPE
Il terremoto ha distrutto Parmenide

Tra i danni più gravi del terremoto di mercoledì scorso va segnalato lo scardinamento dell'edificio teorico pazientemente costruito da Emanuele Severino in decenni di speculazione filosofica. Un edificio che poggia su un fondamento incrollabile: l'eternità e l'immobilità di tutte le cose. Interpellato a caldo nel cuore della notte da un cronista del Corriere, il nihilista bresciano ha ammesso che l'epicentro era proprio sotto casa sua: «Si è sentito fortissimo, e pure a lungo, sarà durato almeno 11 secondi. Che sono tanti, le assicuro».
Undici interminabili secondi in cui, in barba a Parmenide, le cose si sono messe in movimento, il Divenire ha sbertucciato l'Essere e la Struttura Originaria è rimasta seriamente lesionata. Ma «il più grande filosofo italiano» non poteva non presentire ciò che stava per accadere: «øra che mi ci fa pensare - confessa al giornalista - sono uscito dal sonno e subito c'è stata quella scossa». Un attimo prima? Già che c'era non poteva anticipare il risveglio di dieci minuti o mezz'ora, in tempo utile per avvertire la Protezione Civile? Sarà per un'altra volta. Intanto, però, quelli dell'Istituto di Geofisica, che non sanno niente di Parmenide e passano il loro tempo a studiare terremoti che non riescono mai a prevedere, farebbero bene ad assumere Severino: funziona meglio di un sismografo.

week end
una mostra a Milano

La Provincia di Como 28.11.04
MITI GRECI La via che arriva fino all'oggi
Tutto il fascino della mitologia classica nella mostra aperta a Palazzo reale di Milano fino al 23 gennaio

Le gesta di Ettore, eroe troiano, dipinte su un'anfora attica del V secolo a.C. e riprese oltre duemila anni dopo dal Canova, in un calco in gesso tratto a sua volta dai rilievi del Partenone. La saga di Oreste, uno dei personaggi mitici più amati dai ceramografi magnogreci. Il dramma di Medea, donna e maga dai potenti sortilegi, amante e madre, narrato su vasi e affreschi, rivisitato a teatro, al cinema - indimenticabile l'interpretazione di Maria Callas diretta da Pasolini nel 1970 -, nella letteratura. È la forza eterna del mito la protagonista della mostra Miti greci. Archeologia e pittura dalla Magna Grecia al collezionismo, esposta a Palazzo Reale a Milano fino al 23 gennaio 2005. Il percorso espositivo si trasforma in un viaggio attraverso il quale lo spettatore fa esperienza della presenza del mito nei secoli e della sua continuità in epoca moderna e contemporanea. A ricreare il fascino della mitologia classica si susseguono trecento opere tra affreschi, sculture, vasi, armi e gioielli trovati durante gli scavi archeologici in Italia meridionale e giunti a noi grazie alla passione dei collezionisti e alla mania di "vivere alla greca" esplosa tra Settecento e Ottocento nelle dimore aristocratiche e borghesi di tutta Europa. Accanto ai vasi dipinti in Magna Grecia tra il V e il IV secolo a.C., testimonianza preziosa delle pitture andate perdute di Polignoto, Zeusi e Apelle, spiccano i corredi funerari scoperti all'inizio dell'Ottocento nella necropoli di Ruvo di Puglia. Da qui provengono pezzi di rara bellezza come il cratere di Archémoros, la kalpis attica a figure rosse con la dea Atena che rende omaggio ai vasai, il fregio della Tomba delle danzatrici, dipinto a fresco con un corteo di donne che danzano tenendosi per mano. Qui si sono formate la raccolta della famiglia Jatta, i settecento pezzi della collezione Lagioia, acquistata nel 1997 dalla Regione Lombardia e conservata al Civico Museo Archeologico di Milano, e la collezione Caputi, oggi di Banca Intesa, una della poche giunte a noi intatte. Nell'ambito del collezionismo, accanto a Raphael Mengs, a Pelagio Palagi, Ala Ponzone e Gian Giacomo Poldi Pezzoli, è collocato il comasco, canturino di nascita, Alfonso Garovaglio (1820-1905). Le opere selezionate dalla sua raccolta ed esposte in mostra sono cinque: un'anfora apula con personaggi recanti doni, un oinochoe e un lekythos con figure femminili, skypos con una civetta fra rami di ulivo. «La mostra ha voluto dare rilievo al fenomeno del collezionismo in Lombardia. Non poteva quindi mancare il Garovaglio, interessante figura di collezionista ottocentesco, studioso e intenditore che sapeva scegliere. Lo dimostrano la qualità del materiale e i pochissimi falsi da lui acquistati», spiega Isabella Nobile, la conservatrice del Museo Archeologico Paolo Giovio che ha seguito da vicino l'organizzazione della mostra in collaborazione con l'Università degli Studi di Milano e con i curatori Gemma Sena Chiesa ed Ermanno A. Arslan. «La collezione Garovaglio, che comprende circa cinquemila pezzi, colpisce per ricchezza e varietà. Non ci sono solo vasi greci e magnogreci, ma anche egizi, raccolti in gran parte nel 1869 durante un viaggio in Egitto, gemme, bronzetti, reperti precolombiani, etruschi, assir», precisa Isabella Nobile. Ben poco sarebbe rimasto, se Alfonso Garovaglio non avesse donato l'intera collezione al museo di Como alla sua morte, della quale tra pochi mesi ricorrerà il centenario. Proprio nell'intento di continuare idealmente questo gesto e far conoscere la collezione di vasi al pubblico, il museo ha preparato schede e percorsi didattici per bambini, ragazzi e adulti. Un'iniziativa che si inserisce all'interno degli eventi che accompagnano la mostra milanese coinvolgendo musei e teatri lombardi alla scoperta del mito.

Silvia Bernasconi Miti greci
Archeologia e pittura dalla Magna Grecia al collezionismo
Palazzo Reale, Milano, 6 ottobre 2004 - 23 gennaio 2005
Orari: 9.30-20; giovedì e sabato 9.30-22; lunedì chiuso
Ingresso 9 euro
Catalogo Electa
Info 02.54914

Pietro Ingrao

Swg: il 78% non crede al conflitto giusto
Ingrao: con la non violenza spezziamo la spirale della guerra.

ROMA. Sia la non violenza, insieme valore e prassi, la risposta alternativa all'uso della forza, alla guerra che, un tempo giustificata per necessità di difesa o per offese, è oggi diventata preventiva e domani per salvare il mondo. A ribadire il valore della non violenza che è una svolta culturale per la sinistra, è Pietro Ingrao, il novantenne leader storico dell'ex-Pci, assertore convinto della necessità assoluta di rompere la crescente spirale di conflitti armati nel mondo. Un sentimento, la "non violenza", assai diffuso tra la gente come si evince dal sondaggio Swg per conto di «Famiglia cristiana» svolto su 600 soggetti maggiorenni: il 77% è contro l'uso della forza e a favore della mediazione; per il 68% la guerra è «distruzione e morte» e per il 78% non ci sono le «guerre giuste». La guerra come mezzo di soluzione delle situazioni di crisi e dei conflitti, registra «un mutamento del suo carattere - come ha detto Ingrao al convegno «Non violenza e Giustizia Sociale» dove ha discusso con Don Ciotti, Gino Strada e Gianni Rinaldini leader della Fiom - Un tempo chi la faceva (erano i dittatori) la giustificava perché, diceva, doveva difendersi o perché diceva di essere stato offeso, oggi è divenuta preventiva e domani, è il rischio cghe si corre, è che si faccia per salvare il mondo». Affermare la non violenza come valore e prassi politica è via nuova ed obbligata su cui far ricerca per costruire, secondo Ingrao, un sogno: «Mai più guerra, pacifismo assoluto, come del resto prevede l'art. 11 della nostra Carta Costituzionale». «Non ci sono più fini nobili che possano giustificare il ricorso alla forza armata che, come dimostrano le guerre moderne, non risolve nessun problema ma innesca solo la spirale di altre guerre infinite», è la tesi di Strada, per il quale oggi, «la maggioranza degli italiani è contro la guerra rispetto invece alla maggioranza del parlamento che è a favore».

Edipo
tra due mitologie

Repubblica edizione di Firenze 28.11.04
Domani a "Leggere per non dimenticare" l'incontro con il filologo classico e romanziere
Edipo dai Greci a Freud: che mito
Bettini: viviamo dentro due mitologie, dinamiche e conflittuali
Con Guidorizzi firma il terzo volume della collana
di BEATRICE MANETTI

I miti hanno le gambe lunghe. Forse perché non raccontano bugie, o se lo fanno ne inventano di sempre diverse, e sempre rivelatrici di noi a noi stessi. Lo sa bene Maurizio Bettini, filologo classico e romanziere (il suo Le coccinelle di Redrun ha appena vinto il premio Mondello), che dirige per Einaudi la collana «Mitologica», dedicata appunto alle metamorfosi e alla sopravvivenza dei miti dell´antichità. Insieme a Giulio Guidorizzi, Bettini firma il terzo volume della collana, Il mito di Edipo, che i due autori presentano domani (alle 17.30, Biblioteca Comunale di via S. Egidio 21) a «Leggere per non dimenticare».
Professor Bettini, nel corso dei secoli il mito di Edipo ha assunto significati diversi. Ma gli antichi Greci, i primi a confrontarcisi, che cosa ci vedevano?
«La storia di una creatura molto sfortunata, quasi il paradigma dell´uomo perseguitato dal destino, e però, contemporaneamente, anche quello dell'individuo colpevole, in una prospettiva culturale che non distingueva bene la responsabilità individuale dalla colpa. Del resto il mito di Edipo continua a dimostrare ancora oggi l'inadeguatezza di ogni categoria morale».
Nel Novecento, con Freud, tutto cambia.
«Freud dichiara di aver scoperto dentro ciascuno di noi un lato edipico, e quindi trova nel mito qualcosa che per lui rimanda al coraggio e alla libertà della Grecia: i Greci erano coraggiosi perché erano liberi, cioè non repressi, per questo ebbero il coraggio di trasformare in mito una pulsione presente in ciascun bambino. Ma la riflessione freudiana è tutta interna all'idea che la cultura tedesca tra Otto e Novecento aveva dell'antica Grecia, e che era un mito a sua volta».
Ma tutto il secolo breve è ossessionato dai miti classici. Da Joyce a Brecht a Pasolini, moltissimi artisti ne hanno subito la suggestione. A cosa si deve questa longevità?
«Credo dipenda dal fatto che la nostra cultura occidentale non ha una mitologia sola, ma due: quella cristiana, legata alla religione, e quella dell'antichità classica, con cui non ha mai perso il contatto. Questa compresenza, che è spesso conflittuale, ha impedito a entrambe di isterilirsi e ne ha favorito il dinamismo. In alcuni periodi prevale l'una, quella greca nel Settecento e nel Novecento, in altri periodi l´altra, come mi sembra stia succedendo adesso. Ma l'alternanza non finirà qui».

il Settecento

Corriere della Sera 28.11.04
La sfida della ragione alle antiche gerarchie
Il Settecento nasce tradizionale e muore moderno con il trionfo del paradigma scientifico di Newton
di Carlo Capra*

Il Settecento: secolo dei Lumi, della ragione trionfante, dell' Encyclopédie e della corrosiva ironia voltairiana; secolo dei salotti, delle damine incipriate, dei cicisbei. Immagini stereotipe, ma non prive di una loro verità, purché inquadrate nella giusta prospettiva: la diffusione di una nuova cultura in un'Europa ancora dominata dalle forze della tradizione, l'affermazione di una nuova socialità in contrasto con le antiche gerarchie e le antiche distribuzioni di ruoli (fra uomo e donna, fra ricchi e poveri, fra nobili e plebei). Soprattutto, se arretriamo al 1660 l'inizio di questa stagione della storia europea, come fa William Doyle nella sua densa e brillante ricostruzione in edicola con il Corriere , non possiamo fare a meno di collocarla sotto il segno del mutamento, della transizione alla modernità. I concetti di «età moderna», «storia moderna», legati alle nostre convenzionali partizioni accademiche e riferiti ai tre secoli abbondanti che vanno dalla fine del Quattrocento al 1815, tendono a oscurare questa realtà. Meglio sarebbe distinguere una «prima età moderna», corrispondente all' ancien régime francese, alla early modern history degli inglesi o alla frühmoderne Geschichte dei tedeschi, da una «piena modernità» che si dispiega a partire dal Settecento inoltrato e celebra i suoi trionfi nel secolo XIX; mentre la Zeitgeschichte , o «età contemporanea», non si dovrebbe far cominciare prima della fine dell'Ottocento o della grande guerra del 1914-18.
Il Settecento europeo, possiamo dire con una battuta, nasce tradizionale e muore moderno. Proviamo a delineare questo percorso in alcuni settori chiave della vita associata. Il grido d'allarme lanciato nel 1798 dal ministro anglicano Thomas Robert Malthus circa lo squilibrio tra popolazione e risorse, che sarebbe l'inevitabile risultato dell'incremento demografico, rifletteva l'esperienza storica piuttosto che le condizioni del presente, in via di rapida trasformazione per effetto dell'incipiente rivoluzione industriale. Dalla bottega artigiana al sistema di fabbrica e alla produzione di massa, dall'utilizzo della forza muscolare di uomini e animali (o al massimo dell'energia eolica e idraulica) alla macchina a vapore e quindi allo sfruttamento di fonti di energia minerali, è questa una svolta nella storia della civiltà materiale che è stata definita la più importante dopo quella dell'età neolitica. E la rivoluzione industriale è preceduta o accompagnata da non meno vistosi cambiamenti nel regime demografico (calo della mortalità e aumento della natalità), nell'agricoltura, nei trasporti, nel rapporto città-campagna.
Più indietro, agli ultimi decenni del XVII secolo, a quella che Paul Hazard ebbe a definire «la crisi della coscienza europea», dobbiamo risalire per trovare le origini delle idee e degli atteggiamenti mentali che si usano raggruppare sotto l'etichetta di Illuminismo.
I padri nobili sono Spinoza, Bayle, Locke, che posero le basi del deismo, la concezione di un Dio orologiaio, che ha dato la carica all'universo una volta per tutte e non interviene più nelle sue faccende; l'inventore o il perfezionatore del paradigma scientifico a lungo dominante fu Isaac Newton, il cui metodo, basato su osservazione spregiudicata dei fenomeni, sperimentazione e formulazione di leggi in termini matematici, scienziati e philosophes del Settecento cercheranno di estendere anche allo studio della vita e della psiche umana.
Da Londra e da Amsterdam, i centri di diffusione dei Lumi si sposteranno più tardi a Parigi, e in sottordine a Edimburgo, a Milano, a Napoli, a Ginevra, a Berlino, a San Pietroburgo. Da un lato le nuove idee si fanno strada in un pubblico più vasto di lettori di libri e giornali, sono veicolate da istituzioni ufficiali come le accademie o da nuove forme di socialità, non solo i salotti ma le logge massoniche, i caffè, i club; anche se bisogna guardarsi dall'errore di estendere la civiltà dei Lumi, patrimonio pur sempre di ristrette minoranze, alle classi subalterne ancora in gran parte immerse in un universo magico-religioso e fedeli alla visione del mondo tradizionale. Dall'altro la filosofia vola in soccorso dei governi: per riprendere la frase del nostro Filangieri, siede sul trono accanto ai despoti illuminati: Federico II, Caterina di Russia, Carlo III di Borbone, Pietro Leopoldo, Giuseppe II.
Ma il dispotismo (o assolutismo) illuminato è fenomeno tipico delle aree arretrate d'Europa, dove è lo Stato a fare premio sulla società civile. Se guardiamo all'Inghilterra e alla Francia, il quadro della vita politica cambia, coinvolge non solo i sovrani e i loro collaboratori, ma un'opinione pubblica sempre più avvertita ed esigente, propensa a giudicare secondo il metro della ragione e dell’utilità comune; e se oltre Manica essa è in grado di influire sull'azione dei governanti attraverso i canali del Parlamento e della libera stampa, sulle rive della Senna il confronto scivola fatalmente verso la contrapposizione frontale, la contestazione globale di quello che ben presto si chiamerà l'antico regime.
La convocazione degli Stati generali nel 1789, immaginata come strumento per puntellare la monarchia pericolante, si trasformerà nella levatrice di una nuova società, di cui è parte essenziale la transizione della sovranità dal monarca per diritto divino alla nazione, con tutto ciò che ne consegue (e contro cui vanamente lotterà la Santa Alleanza) in termini di eguaglianza di diritti, di rappresentanza dei cittadini e di autodeterminazione dei popoli. Non è una rivoluzione borghese secondo lo schema a lungo difeso dalla storiografia marxista, di una vittoria della borghesia e del capitalismo sul regime feudale, ma è comunque la fine (o il principio della fine) del vecchio assetto gerarchico e corporativo della società europea.

* Professore ordinario di Storia dell’età dell’illuminismo presso l’Università degli studi di Milano

«La Cina e l'Antonioni proibito»

DOMENICA, 28 NOVEMBRE 2004
La Cina e l'Antonioni proibito
di FEDERICO RAMPINI

PECHINO. Le proteste di chi non è riuscito ad avere i biglietti, un tafferuglio all´ingresso, la polizia che deve contenere gli spettatori, l´immensa sala gremita, e tantissimi giovani. È successo ieri sera a Pechino e non era un concerto rap. All´Accademia del cinema si proiettava un didascalico documentario, vecchio di 32 anni, lungo quattro ore, commentato in lingua straniera coi sottotitoli. Ma per i cinesi quel documentario è un mito. Fu realizzato qui in un periodo terribile della loro storia, tutti ne conoscevano l´esistenza, nessuno lo aveva visto. Era stato messo all´indice come un oltraggio alla Cina, il suo autore fu definito «un verme al servizio degli imperialisti» e additato come un traditore perfino nelle scuole.
Il film-tabù è Chung Ku-Cina di Michelangelo Antonioni, che ieri sera per la prima volta dal 1972 è stato riabilitato e proiettato davanti al pubblico cinese. Il regista italiano lo aveva filmato qui nel bel mezzo della Rivoluzione culturale, su invito del governo di Pechino che - per sua stessa ammissione - condizionò i suoi movimenti e scelse le cose che doveva vedere. Salvo poi censurarlo duramente con un editoriale del "Renmin ribao" (Quotidiano del Popolo) del 30 gennaio 1974 intitolato «Intenzione spregevole e manovra abietta».
Antonioni divenne pedina inconsapevole di un regolamento di conti tra fazioni. Lo aveva invitato il premier moderato Zhou Enlai, l´artefice dello storico incontro tra Mao e Nixon, che stava avviando la normalizzazione diplomatica con il resto del mondo. Antonioni doveva servirgli per rivelare la Cina agli occidentali dopo anni di isolamento, mostrandone un volto bonario e rassicurante. Ma contro Zhou Enlai era in agguato la «banda dei quattro», il gruppo estremista ispiratore della Rivoluzione culturale che includeva la moglie di Mao, e ci andò di mezzo Antonioni.
Eppure Chung Ku non prestava il fianco alle accuse. Non a quelle accuse. Rivisto oggi, colpisce per la sua simpatia verso il maoismo. La scelta dei soggetti è quasi sempre apologetica, una elegante traduzione della propaganda ufficiale: il patriottismo delle operaie in fabbrica, le sedute di dottrina rivoluzionaria, i canti e le gare dei bambini a scuola, il duro ma gratificante lavoro dei contadini nei campi, la giovane partoriente che subisce un cesareo senza anestesia (sostituita dall´acupuntura) con un beato sorriso sulle labbra. I commenti trasudano ammirazione. Durante il cesareo: «Anche le tecniche mediche vogliono dimostrare che si possono vincere grandi ostacoli con mezzi semplici». Di fronte alla povertà di massa: «Ci si sente contagiati da virtù dimenticate come il pudore, la modestia, la decenza». In sala scoppiano fragorose risate tra i ventenni.
La grande assente in Chung Ku è proprio la tragedia della Rivoluzione culturale. Nulla nel documentario lascia intuire ciò che sta accadendo davvero in quegli anni: l´uso golpista dell´esercito da parte di Mao per far fuori i moderati, le purghe di massa, le persecuzioni, i processi sommari, le autocritiche umilianti in pubblico, i lager dedicati alla «rieducazione», la chiusura delle università, gli studenti e i docenti mandati al confino nelle campagne, la paralisi della ricerca scientifica vittima delle battaglie contro la «cultura borghese». Certo Antonioni non fu il solo a non vedere. Alberto Moravia, che lo aveva preceduto in Cina esplorandola all´inizio della Rivoluzione culturale (1967), esaltò Chung Ku: «Le cose più belle del film sono le notazioni eleganti e autentiche sulla povertà sentita come fatto spirituale, prima ancora che economico e politico».
Mentre cresce la mia delusione, comincia a parlarmi nell´oscurità della sala la mia vicina di poltrona, una donna sulla cinquantina. Il 1972 era un anno importante per lei: «Il mio ritorno a Pechino, dopo che mi avevano costretto a servire nell´esercito». Di fronte al mio stupore per la censura ad un film così poco critico, mi corregge: «Io capisco che lo abbiano proibito. Mostrando come vivevamo, questo film ci rivelava più poveri e arretrati di quanto i nostri leader volevano far credere. Guardi quei contadini dello Hunan che fuggono dallo sguardo della cinepresa. Il commento del regista dice che non sono abituati a vedere stranieri ma la ragione è un´altra: si vergognano, come tutti i poveri del mondo». Grazie a lei vedo Chung Ku con altri occhi, quelli cinesi. Diventa meno innocuo. Nel centro di Shanghai appaiono nel 1972 casupole di una miseria africana, con tetti di paglia e mura di terra; lungo le strade senza automobili ragazzini seminudi trainano a braccia enormi carretti. «Sembra la Corea del Nord» sospira la mia vicina. Il suo giudizio su un´intera classe dirigente: «La loro colpa peggiore fu di tenerci nella povertà». Lo dice con la rassegnazione della generazione perduta, che vede la Cina di oggi e pensa che tutto sarebbe potuto accadere trent´anni prima.
Antonioni ha la sua rivincita. I commenti invecchiano male. Le immagini, anche incomplete, hanno una forza che non si piega

venerdì al Piccolo Eliseo
Fausto Bertinotti ha presentato il proprio programma

Liberazione 27.11.04
Bertinotti: «Vogliamo vincere la sfida»A Roma, al Teatro Piccolo Eliseo stracolmo di gente, il segretario del Prc ha presentato il documento congressuale della maggioranza: «Cacciare Berlusconi e costruire l'alternativa»

«A chi ci chiede dove andiamo faccio un'altra domanda. Che cosa saremo ora se non fossimo stati a Genova, se non ci fossimo liberati dello stalinismo, se non avessimo marciato con i movimenti, se non avessimo introdotto l'idea e la pratica della nonviolenza? Saremo una inutile formazione ortodossa». E' forse il momento più emozionante dell'ampio discorso del segretario di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti, alla presentazione del documento congressuale L'alternativa di società. Un discorso complesso che ripercorre le tappe di un lungo cammino. Con orgoglio. Lo stesso delle donne e degli uomini presenti che, alla domanda «che cosa saremo ora se?», scoppiano in un lungo applauso. Non rituale, non di maniera, ma carico di passione politica. Sono in tanti, troppi per la sala del Teatro Piccolo Eliseo, nel cuore della capitale. Stanno in piedi, seduti, ai lati e in fondo la sala. Sono dirigenti del partito, parlamentari, intellettuali, registi, tanti compagni e compagne, tutti pronti a stringersi attorno a un ospite d'eccezione: Ali Rashid, il rappresentante palestinese minacciato da Forza Italia di espulsione dal nostro paese. Lo saluta per primo la segretaria della federazione di Roma, Chicca Perugia, che introduce i lavori: «A lui - dice - va la nostra solidarietà e un forte abbraccio per l'attacco ricevuto in questi giorni. Non solo perché è un nostro amico, ma anche perché avremo detto le stesse cose». «L'unico posto in cui vorremmo che andasse - sottolinea Bertinotti - è nel libero stato di Palestina».

Sfida al partito
in vista del congresso
Il discorso del segretario del Prc vola alto. E' il discorso di un partito che vuole fare un ulteriore salto. Un grande salto. Per questo Bertinotti, in occasione del sesto congresso con cinque mozioni che considera un segno di democrazia, lancia una sfida, più sfide. Intanto al partito: «Se non passerà questa linea politica, verrebbe messa in discussione la modalità di governo del partito». La linea è presto indicata. «E' la linea di un partito che da sempre cerca una uscita a sinistra dalla crisi del movimento operaio». Niente a che vedere quindi con le accuse di voler rifare una sorta di Bolognina di Rifondazione comunista, ma una sfida di tutt'altra natura, perché diverso è anche il contesto. Il Prc non è più il partito del '98, isolato nella sua scelta coraggiosa di rompere con Prodi. Intorno c'è una sinistra allargata, dentro e fuori il Parlamento, dentro e fuori l'Italia. E' un partito più forte che vuole battere Berlusconi e costruire un'alternativa di società. «Per noi - spiega Bertinotti a proposito di una delle questioni più discusse - il governo non è un valore assoluto. La collocazione al governo o all'opposizione è una opportunità. A noi interessa andare al governo per cacciare le destre e fare un'altra politica. Non per fare qualunque politica, ma per cambiarla». Il movimento da solo non regge la sfida; la politica, senza la connessione col popolo, non ce la fa. «Si tratta di mettere insieme queste due dimensioni per fermare la guerra e il neoliberismo. Per sconfiggere Berlusconi». «Chi ci garantisce - si chiede Bertinotti tra gli applausi - che ce la faremo? Nessuno. Ma possiamo provare. Dobbiamo provare».

Per avvalorare la sua proposta, il segretario del Prc si sofferma in maniera dettagliata sull'analisi sia del governo attuale che sull'inadeguatezza delle opposizioni della Grande alleanza democratica.

La Gad: presenti proposta sul fisco
Prima di entrare in teatro le domande dei giornalisti mettono l'accento sulla cronaca. Gli attacchi della Lega allo Stato di diritto con l'idea di mettere una taglia, prima di tutto: «Costituiscono - risponde - uno strappo alla civiltà giuridica del paese, sono un soprassalto di barbarie». Poi la questione tasse: «Il governo leva dieci per dare sei, ma solo a chi è già ricco. E' una sorta di peronismo dei ricchi, con qualche mancia per i poveri, che pagano i lavoratori». E' per questa ragione che Bertinotti chiede alla Gad di presentare la sua proposta sul fisco in occasione del prossimo incontro di lunedì. Non c'è tempo da perdere. Questa destra sta «creando una desertificazione di tutte le autonomie democratiche. Non si può pensare - dice rivolto alle opposizioni - che siccome il governo è in crisi, cada naturalmente. E' quanto di più sbagliato si possa fare».

La Grande alleanza democratica deve battere uno, più colpi, connettendosi con il popolo. Con la sua voglia di cambiamento. Un popolo che non è un «blocco sociale» compatto, è una soggettività complessa, ricca, incrocio di tante esperienze e culture: il movimento operaio con la sua scalata al cielo e i suoi errori, il femminismo e il partire da sé anche in politica, l'ambientalismo, il pacifismo, tutte le culture critiche. Non è un caso che Bertinotti parta dalla sfida più grande: rinnovare la politica. Su questa strada c'è la pace, la nonviolenza. «C'è - sottolinea - una parola difficile a cui però bisogna tornare: l'ideologia. Ci hanno detto che le ideologie erano finite. Invece Bush ha vinto grazie a una ideologia forte. Noi dobbiamo partire da qui. Senza questa sfida la politica si riduce a miseria».

I giovani e la parola comunista
La sala diventa sempre più gremita. Il discorso del segretario del Prc, pur puntualizzando diversi passaggi del dibattito interno, guarda al mondo fuori del partito. Alla società che definisce «la barra» del lavoro svolto e da fare. Per fare cosa? Per vincere. «Vogliamo vincere - conclude Bertinotti - per tutto il partito, anche per quello che vorremo far perdere. Per restituire al paese una sinistra anticapitalistica, protagonista. Vogliamo vincere affinché il termine comunista possa essere inteso e fatto proprio anche da un giovane che si affaccia ora al mondo della politica».

Angela Azzaro
angela. azzaro@liberazione. it

il manifesto 27.11.04
Bertinotti lancia Rifondazione

Presentata a Roma la sua mozione congressuale: «L'alternativa di società per cacciare Berlusconi e rifondare la politica». Paletti e stop a Ulivo e alleati di sinistra
Una confederazione di sinistra? «Capisco il fastidio per le formule misere delle federazioni, delle confederazioni, gli accrocchi tra diversi partiti. Noi non vogliamo scimmiottare le forze riformiste»
di MATTEO BARTOCCI

ROMA.
«Guidare la rifondazione della politica e della democrazia costruendo l'alternativa di società». E' questa la «stella polare» che Fausto Bertinotti propone al Prc in vista del prossimo congresso. Presentando la sua mozione (intitolata «L'alternativa di società») il segretario di Rifondazione ha tracciato il futuro possibile del suo partito. Non lesinando segnali e paletti chiari verso l'opposizione interna, gli alleati dell'Ulivo e le altre forze di sinistra. La presentazione di una mozione è un fatto «inusuale per il nostro partito - ammette Bertinotti di fronte alla folla del Piccolo Eliseo - ma stavolta bisogna spiegare bene le ragioni di una scelta impegnativa». «Perché il congresso, con tutti i suoi limiti, parlerà di noi, ma soprattutto di una grande politica, e noi vogliamo vincere». Stavolta si dovrà fare chiarezza: «Vincere al congresso è la condizione unica e indispensabile per questo cammino e difendere il partito. Se non raggiungessimo la maggioranza dei consensi - avverte Bertinotti - il governo complessivo del partito dovrebbe essere ripensato». Avvisata a distanza l'opposizione interna (circa il 40%), il vero punto di partenza è una sorta di «elogio dell'ideologia», che nell'accezione bertinottiana rappresenta «l'idea di società», l'evoluzione dei pensieri «resistenziali» sopravvissuti al pensiero unico neoliberista in un corpo di principi articolato in tre «direzioni».

Idee di società: non violenza e non solo
Non violenza, altermondialismo e uguaglianza sono le tre eredità del `900 che devono passare al centro della nuova politica. Politica che se le accoglie si muoverà in due direzioni non opposte ma non sovrapponibili: dall'alto, tramite il ruolo dei partiti nell'amministrazione e nel governo; dal basso tramite la forza dei movimenti. Movimenti però (intesi nella loro accezione più vasta) che devono mantenere intatta la loro autonomia e indipendenza dal potere. «Non è che se andiamo al governo non ci sarà più uno sciopero generale - dice il segretario del Prc - perché nei movimenti c'è la principale risorsa anche della nostra politica».
«A chi ci chiede dove andiamo rispondo così, - dice Bertinotti - cosa saremmo se non fossimo stati al primo forum di Porto Alegre e a Genova, se non avessimo ripudiato lo stalinismo, se non avessimo esplorato la via della non violenza e incontrato il movimento della pace? Saremmo stati una inutile formazione ortodossa». Gli applausi scrosciano e qualcuno dalla platea sussurra: «Saremmo cossuttiani».

«I movimenti da soli non bastano»
«Il nostro obiettivo - spiega Bertinotti - pur tra mille strappi e svolte è stato sempre lo stesso: l'uscita da sinistra dalla crisi del movimento operaio. Chi dice che stiamo facendo la nostra Bolognina dice una sciocchezza. Noi vogliamo dare al termine `comunista' un significato che anche un giovane che si affaccia oggi alla politica possa intendere e fare proprio». La nuova via parte dalla crisi del comunismo, dalla critica del potere e dello stalinismo fino all'incontro con i movimenti. Il «superamento della società capitalistica» resta una «aspirazione» ma è una definizione di «partito» che si allontana dall'«identità» e si concentra invece sui «processi»: «C'è una spinta dal basso che dovremmo saper raccogliere, contaminandoci».
«Ma i movimenti - registra il segretario - da soli non bastano, anche lì ci sono fragilità e debolezze», non solo nel mondo (vedi la vittoria di Bush) ma anche in Italia. Qual è la «ratio» comune di atti berlusconiani come la desertificazione del parlamento, la controriforma della magistratura, il controllo del sistema delle comunicazioni, l'attacco alla scuola, al sindacato e al mondo del lavoro, la demolizione dello stato sociale, il peronismo fiscale... «E' la cancellazione di tutte le autonomie, e sul deserto che verrà ci sarà una sola piramide con in cima il capo del governo. E' una concezione prima che autoritaria a-democratica».

La cruna dell'ago del governo
Parte da qui la sfida che attende Rifondazione: «L'esistenza del governo Berlusconi impone alla nostra radicalità un obiettivo temporalmente prioritario: cacciare il centrodestra e costruire un governo di alternativa». E' adeguata l'alleanza guidata da Prodi? No, «è inadeguata - spiega Bertinotti - noi dobbiamo essere la spina nel fianco dell'opposizione, per arrivare rapidamente alle elezioni anticipate». Da lì la sfida del governo, che «non è il cuore della nostra proposta ma è il mezzo per la costruzione di un'alternativa di società. Stare a palazzo Chigi non è un valore assoluto, dipende da cosa si va a fare». E per stabilirlo il programma non basta, è «soltanto un accordo tra partiti, per noi il programma è un processo aperto, una costituente che viva nelle esperienze del paese e da queste costruisca la trasformazione della concezione del governo». «Abbiamo rischiato l'osso del collo quando abbiamo rotto con Prodi - ricorda Bertinotti - ma oggi questo partito è lo stesso che dice: ci riprovo, per cacciare Berlusconi e per tentare di cambiare la politica». Intanto, dice tra gli applausi, «cominciamo con l'abolire la legge 30, la riforma Moratti, la Bossi-Fini....».

L'unità a sinistra non è tra partiti
Bertinotti riconosce che esiste una «sinistra larga, collocata diversamente tra le forze politiche e che tutta insieme vuole spostare l'asse della coalizione prodiana». Per esempio ci sono «convergenze con la sinistra Ds», ma l'altolà a chi propone aggregazioni di partiti come il Pdci arriva forte e chiaro: «Capisco il vostro fastidio - dice Bertinotti alla platea - per le formule misere delle federazioni, delle confederazioni, per gli accrocchi tra i diversi partiti. Noi non vogliamo scimmiottare le forze riformiste. Dobbiamo guardare al territorio, ai movimenti, ai sindacati, alle città». Il cammino inizia da qui.